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La materia dell’affidamento dei minori nei casi di rottura familiare è stata profondamente innovata con la legge n.  54/2006  la quale non si è limitata ad una profonda revisione della disciplina,  ma ha rivoluzionato il significato stesso dell’istituto in esame.  Si tratta di un provvedimento legislativo da tempo atteso, che – seguendo l’esempio di altri ordinamenti giuridici –  ha voluto garantire il diritto del minore a mantenere contatti con entrambe le figure genitoriali. La ratio ispiratrice della riforma trova compiuta realizzazione nel “principio della  bigenitorialità”  –  introdotto nel nostro ordinamento dalla legge n. 176/1991,  di ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale di New York del 20.11.89 sui diritti dei minori e ribadito di recente dall’art. 24 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea –   inteso quale diritto del minore di  “mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”  (art. 155, comma 1 c.c.). Proprio in funzione di tale valore, il c.d. affido condiviso costituisce ora la regola, ovvero il regime da adottarsi in via preferenziale e prevalente,  riducendosi invece l’affido monogenitoriale (c.d. affido esclusivo) ad una ipotesi di carattere assolutamente eccezionale e residuale.  Ecco perché, in conformità all’art. 155 bis c.c. l’eventuale scelta del giudice nel senso di un affido esclusivo è un mero rimedio residuale, da motivare adeguatamente, in quanto ipotizzabile soltanto se l’affidamento all’altro genitore si dimostri contrario all’interesse del minore.

Seppure valorizzato dalla richiamata riforma, da sempre  “l’interesse del minore nell’affidamento della prole” ha rappresentato il fondamentale presupposto affinchè fosse preferito il genitore maggiormente idoneo a ridurre i danni derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare;  da qui, il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui l’individuazione del genitore affidatario era da effettuarsi sulla base di un giudizio prognostico circa le capacità del padre o della madre di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione di genitore singolo; dunque, prescindendo dall’accertamento della responsabilità per il fallimento del matrimonio e ricercando soluzioni tese a recuperare il rapporto affettivo verso i genitori.

Il compito primario di un giudice nell’emettere provvedimenti sull’affidamento della prole, in ipotesi di separazione giudiziale dei coniugi, non è quello di accertare colpe o di irrogare sanzioni, ma di individuare soluzioni che valgano a recuperare il rapporto affettivo reciproco dei figli minori anche nei confronti dei genitori. Il provvedimento sull’affidamento, in una situazione di grave conflittualità coniugale, non deve essere rivolto a perseguire astratti scopi di giustizia, quanto ad attenuare, il più possibile, il conflitto coniugale e a migliorare al massimo le condizioni della prole,  adottando  tutte le decisioni valevoli a far sì che il benessere dei figli  abbia a risentire il meno possibile della crisi che travaglia i loro genitori.

Da quanto sopra, si rileva che il sistema tende a privilegiare  la realizzazione della personalità dei membri “in formazione” della famiglia e funzionalizza il rapporto genitori/figli al perseguimento di una formazione personale che tenga conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli,  riconoscendo in questa formazione l’elemento catalizzatore della potestà, resta il fatto che, come ogni altro provvedimento, una volta in più la decisione sull’affidamento della prole va presa “con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale” dei figli.

L’interesse dei figli è la clausola generale adottata dal legislatore per indicare la necessità di salvaguardare una personalità in formazione di fronte a qualsiasi altra esigenza: il figlio,  il suo rapporto con i genitori, le sue esigenze primarie e fondamentali per un suo corretto sviluppo. Con quella “clausola generale” i minori diventano l’imprescindibile fine di ogni azione e provvedimento che li riguardi in ogni fase e circostanza del rapporto familiare.

Nel decidere sull’affidamento il Tribunale deve ricercare la soluzione che risponda maggiormente all’interesse del minore, e di tale soluzione deve dare congrua motivazione. Esigenza del minore è anzitutto quella del suo benessere psicofisico” (Bianca).

Come già anticipato in precedenza, la legge n. 54/2006 è stata l’occasione per introdurre importanti modifiche nell’ambito dei procedimenti  relativi alle crisi coniugali,  oggi disciplinati dal principio della bigenitorialità, ovvero il diritto dei figli minori a “mantenere un rapporto equilibrato e continuativo”  con entrambi i genitori,  ricevendo da ciascuno “cura, educazione e istruzione”, ciò diversamente da quanto avveniva in passato,  ove era lo stesso giudice a stabilire presso quale coniuge la prole dovesse essere collocata e regolamentando rigorosamente il diritto di visita in favore del genitore non affidatario. In tal modo l’affidamento ad entrambi i genitori  è divenuto la regola generale, dovendo il giudicante (per espressa previsione di legge) valutare prioritariamente questa modalità di affido, relegando la forma monogenitoriale alle sole ipotesi in cui la presenza di un genitore risulti contraria all’interesse del minore.  Occorre in ogni caso precisare che la compartecipazione dei genitori non comporta una paritaria suddivisione dei tempi di permanenza dei figli presso ciascuno di essi. Affidamento condiviso significa quindi, condividere la genitorialità, ripartendo tra i genitori le facoltà decisionali e i relativi obblighi,  tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni dei figli che, se dodicenni o anche di età inferiore,  se capaci di discernimento, devono essere sentiti nei giudizi che li riguardano, in ottemperanza a quanto stabilito dalle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia (Convenzione Diritti del Fanciullo 1989;  Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli 1996).

L’audizione del minore è un mezzo che il giudice può utilizzare per la ricerca proprio del suo interesse. La legge accenna alla capacità di discernimento con la quale si intende quella capacità corrispondente “alla gradualità di sviluppo della persona e non commisurabile in assoluto ma variabile secondo le situazioni ed i soggetti che nella concreta ipotesi si considerano” .  La scelta di ascoltare un minore al di sotto dei dodici anni, deve essere frutto di una attenta riflessione del giudice che deve avere come finalità non quella di far esprimere una preferenza al minore, ma di verificare la sue necessità per scoprire a quali esigenze prioritariamente si deve far fronte.

Punto di riferimento del giudice   (non solo della separazione e del divorzio ma anche delle decisioni in merito all’affidamento dei figli naturali)  è, esclusivamente l’interesse morale e materiale del minore; un interesse che, è  obiettivo e regola di giudizio,  nonché misura della giustizia del provvedimento. La giurisprudenza è difatti concorde nel ritenere che deve essere preferito, quale genitore affidatario, quello maggiormente idoneo ad assicurare il miglior sviluppo della personalità del figlio,  in quel contesto di vita capace di soddisfare tutte le esigenze di cui egli è portatore con riferimento alla situazione in atto.  Nell’ottica delineata, l’interesse del minore non può essere individuato aprioristicamente a prescindere dalle connotazioni specifiche della singola ipotesi nella quale esso va realizzato, poiché l’interesse del minore è,  a differenza di quello dell’adulto in genere, proiettato verso il futuro: pertanto la chiave di lettura deve rinvenirsi nella necessità che il minore possa correttamente sviluppare la propria personalità.  In che cosa consista esattamente l’interesse è impresa ardua,  ma possiamo dire che sicuramente interesse del figlio non significa arbitrio o capriccio dello stesso.  L’interesse del minore a differenza dell’adulto è tutto proiettato verso il futuro concorrendo a caratterizzare le linee di un armonico sviluppo della persona. Sulla base di ciò il giudice deve attenersi al criterio fondamentale dell’interesse della prole, con la conseguenza che è tenuto a privilegiare quel genitore che appaia più idoneo a ridurre al massimo – nei limiti consentiti da una situazione comunque traumatizzante – i danni derivanti dalla crisi della famiglia ed assicurare il miglior sviluppo possibile della personalità  del minore, in quel contesto di vita che risulti più adeguato a soddisfare le esigenze materiali,  morali, affettive e psicologiche delle quali egli è portatore. Ovviamente non possono essere ammessi limiti derivanti dall’eventuale “colpa” di uno dei coniugi per l’intervenuta crisi familiare, quasi assumendo l’affidamento a strumento sanzionatorio del comportamento determinante la rottura.  “……l’affidamento ed i provvedimenti riguardanti i figli devono avere come esclusivo riferimento l’interesse morale e materiale degli stessi, l’affidamento della prole ad uno dei due coniugi non deve mai essere concepito né come premio consolatorio per il coniuge cui non sia attribuibile alcuna responsabilità  per il fallimento del matrimonio, né,  d’altra parte, come una sorta di sanzione per l’altro ex coniuge cui, invece tale responsabilità sia più o meno largamente addossabile” . (Cass. N. 5642).

In tema di separazione dei coniugi, i provvedimenti riguardanti l’affidamento della prole vanno adottati con esclusivo riferimento all’interesse materiale e morale di essa. Pertanto gli stessi non possono essere disposti, né essere intesi come premio o punizione per l’uno o per l’altro dei genitori,  ma devono essere ispirati al criterio del minor danno che ai figli possa derivare dalla disgregazione familiare e, quindi,  a prescindere dalla responsabilità dell’uno o dell’altro coniuge e indipendentemente dalla richiesta delle parti o dal loro eventuale accordo, dovendo il giudice – al fine di tale affidamento – tenere conto solo della maggiore idoneità,  dal punto di vista materiale,  psicologico ed affettivo,  dell’uno o dell’altro dei genitori ad assicurare la tutela e lo sviluppo fisico, morale e psicologico dei minori” (Cass.  n. 4127).

Il legislatore non ha precisato e tipizzato i presupposti che giustificano la deroga al principio dell’affido ad entrambi i genitori,  ma ha rimesso la valutazione dei singoli casi concreti al giudice, il quale dovrà motivare in modo puntuale e preciso la contrarietà dell’affido condiviso all’interesse del minore.  La dottrina ha autorevolmente sostenuto che “ il giudice deve indicare con particolare rigore o precisione, cioè, con circostanze specifiche e non con clausole di stile, le ragioni che sconsigliano l’affido condiviso”;  in mancanza sarà commessa una violazione di legge che – in applicazione dei principi generali – costituirà motivo di gravame. Sicuramente non sarà necessario il verificarsi di situazioni “estreme”,  quali quelle previste dagli artt. 330 e 333 c.c. (violazione dei doveri e abuso dei poteri con grave pregiudizio per il figlio), in presenza dei quali sarà attivabile il procedimento, autonomo e diverso nei fini, per la decadenza o la sospensione dalla potestà genitoriale,   essendo sufficiente la sussistenza di circostanze oggettive e/o soggettive inerenti l’uno o l’altro genitore,  destinate a ripercuotersi negativamente sui figli ove amplificate dall’applicazione del “nuovo regime”.  Così è  stata ritenuta contraria all’interesse del minore la concessione dell’affidamento condiviso in presenza di ipotesi  in cui sia lo stesso minore a rifiutare,  in modo categorico, ogni rapporto con uno dei genitori, adducendo motivi di sofferenza che il giudicante  – sia direttamente, sia con l’ausilio di una consulenza psicologica – deve ascoltare e porre a fondamento della propria decisione;  ovvero quando concretamente sussistano eventi oggettivi che impediscono l’attuarsi dello stesso, quale ad esempio lo stato detentivo.

La Suprema  Corte, intervenendo sul punto, nel tentativo di fornire delle linee guida nell’interpretazione della nuova disciplina,  ha sancito che per potersi derogare alla regola dell’affidamento condiviso è necessario che “risulti, nei confronti di uno dei genitori, una sua condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale appunto da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore”. (Cass. n. 16593/2008)

In linea generale, perché possa derogarsi alla regola dell’affidamento condiviso occorre che, nei confronti di uno dei genitori, emerga una condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa, t ale da rendere quella forma di affido inappropriata e, perciò, pregiudizievole al minore. Pertanto i contenuti dei provvedimenti giudiziali, dovranno risultare sorretti da una motivazione non solo in positivo sull’idoneità del genitore affidatario,  ma anche in negativo sull’inidoneità educativa dell’altro, “da accertarsi con un apprezzamento globale della personalità,  dell’attitudine,  della disponibilità materiale e psicologica,  dell’ambiente in cui ciascuno dei due genitori è inserito, in rapporto alle esigenze concrete , morali e affettive dei figli,  e quindi con esclusivo riferimento all’interesse di questi ultimi”. (Cass. n. 9746/1990).

La giurisprudenza di legittimità è unanime nell’escludere che una situazione di mera conflittualità tra i coniugi possa di per sé configurarsi come ostativa all’affido condiviso (Cass. n. 16593/2008).  La richiamata giurisprudenza,  proprio nel rispetto dell’ottica finalistica delle nuove norme,  ha ritenuto che l’affidamento ad entrambi non può essere escluso per la sola presenza di dissapori o contrasti all’interno della coppia poiché, altrimenti, questo istituto registrerebbe un’applicazione del tutto marginale, coincidente con il vecchio affidamento congiunto, essendo frequente nella prassi l’innesco strumentale di conflitti in grado di orientare il decidente verso un affido monogenitoriale. Sulla base di ciò si può affermare che l’elevata conflittualità coniugale  – sebbene possa, a ragione, sconsigliare l’affidamento condiviso –  non può comunque deporre negativamente in tal senso, poiché il distacco del minore dal padre o dalla madre si risolverebbe in un grave pregiudizio.  L’affido condiviso, in occasioni simili, dovrebbe invero portare  ad una maggior responsabilizzazione dei genitori,  spingendoli verso il superamento del contrasto in favore del benessere dei figli.  Neanche la declaratoria di addebito, anche per infedeltà,  non osta di per sé sola all’affidamento della prole al genitore cui sia stata addebitata la separazione. (Cass. n. 23786/2004).  Cosicchè non costituisce motivo sufficiente per modificare l’affidamento la circostanza che il genitore affidatario viva more uxorio con un altro individuo, pur se da questi abbia avuto un altro figlio. Oggetto di valutazione del giudice devono  essere esclusivamente i rapporti tra genitore e figlio,  non rilevando al contrario le relazioni interconiugali o le responsabilità dell’uno o dell’altro coniuge nel fallimento della relazione matrimoniale.  Inoltre la scelta sull’affidamento esclusivo non   si può basare sulle convinzioni politiche  o religiose (Cass. n. 1401/1995),  o sulla nazionalità di uno dei coniugi.

La suprema Corte (Cass. n. 16593/2008)  ha tentato di fornire un elenco esemplificativo e non esaustivo dei presupposti che possono legittimare l’adozione del regime di affido esclusivo, individuandoli in “una anomala condizione di vita, nell’insanabile contrasto con il figlio, nell’obiettiva lontananza ecc.”.  Tuttavia la giurisprudenza di merito ha contribuito con varie pronunce, ad integrare il cennato elenco, delineando una casistica più ampia e dettagliata.  Ad esempio,  vi sono situazioni particolari,  o meglio, estreme,  oppure condizioni soggettive di un genitore che per la loro gravità danno origine a situazioni di serio rischio per il benessere psicofisico del minore. Rientrano in tali situazioni le gravi patologie psichiatriche, le alcool dipendenze, le tossicodipendenze, la condotta violenta. La Corte di Cassazione ha ritenuto che anche la condotta gravemente screditatoria della capacità genitoriale dell’altro coniuge, impedendo l’assunzione di una comune responsabilità genitoriale,  possa giustificare all’affido condiviso (Cass. n.  16593/2008).  Del medesimo avviso è anche la giurisprudenza di merito secondo la quale anche “l’affidamento condiviso presuppone almeno il reciproco riconoscersi adatti da parte dei genitori, vale a dire necessari e fungibili; è necessaria, in altri termini ancora, la consapevolezza di ciascuno di essi di dover fornire e favorire un paritario accesso del minore alla figura dell’altro,  pur se portatore di cultura, personalità,  idee diverse dalle proprie.  Se così non è, è facile prevedere che i genitori non collaboreranno affatto nella gestione anche quotidiana della vita del minore” . (Trib. Napoli 28.06.06, cit. ; App. Bologna decreto 24.11.08 in Fam. pers. succ. , 2009, 472). L’affido esclusivo può essere adottato anche qualora il genitore abbia dimostrato l’incapacità di instaurare un rapporto affettivo con il figlio. Numerose sono le pronunce che hanno giustificato l’esclusione del genitore dall’affidamento in virtù dell’interruzione o della diradazione, a lui imputabili, dei contatti col minore (Trib. Trani  04.12.07, cit. ; Trib. Bologna 08.11.07, n. 2547, cit), o dell’indifferenza dimostrata nei suoi confronti (Trib. Bologna 17.04.08, in Foro It., 2008, I, 1914).

La Corte d’Appello di Bologna ha avuto modo di precisare  che  “la partecipazione del genitore non convivente alle decisioni relative ai figli è imprescindibilmente collegata alla condivisione dei compiti di cura, istruzione ed educazione dei minori e deve necessariamente corrispondere ad una concreta partecipazione alla quotidianità della loro vita. Pertanto non è possibile applicare l’affidamento condiviso quando il genitore non convivente,  quali che siano le ragioni, ha da anni cessato o comunque diradato i rapporti col figlio”. (App. Bologna 30.06./21.09 2006  n. 954, cit.). Il fondamento di tale impostazione risiede nel dato di fatto  che sarebbe inopportuno attribuire la partecipazione alle decisioni riguardanti un minore ad un genitore che non lo conosce affatto. Se, infatti, avere in affidamento dei minori significa curarli nonché decidere sulla loro istruzione ed educazione tenendo conto delle loro capacità,  inclinazioni naturali ed aspirazioni, come potrà svolgere tale compito l’adulto che non conosce i propri figli, che non ne ha mai condiviso la quotidianità ?

L’affido esclusivo rappresenta, in situazioni come questa, l’unica soluzione possibile, nella misura in cui quello condiviso, altro non sarebbe che una finzione nella quale la realtà giuridica si discosta totalmente da quella fattuale.  Il disinteresse del genitore nei confronti del figlio può manifestarsi anche sul piano economico. Il costante inadempimento dei propri obblighi di mantenimento nei confronti del minore, in quanto indice di assoluta mancanza di affidabilità e di responsabilità, oltre che di scarsa sensibilità alle esigenze reali e concrete dei figli, può giustificare l’adozione del regime di affido esclusivo (Cass. n. 26587/2009; Trib. Catania 14.01.07, Trib. Bologna  17.04.2008 cit; App. Bologna 07.05.2008 n. 692).

Controversa risulta la questione della rilevanza da attribuirsi alla lontananza geografica come ostacolo alla condivisione delle responsabilità genitoriali. La giurisprudenza di merito si è tuttavia espressa concordemente nel ritenere che la distanza tra i luoghi di residenza dei genitori non precluda la possibilità di affidare i minori ad entrambi pur comportando notevoli sacrifici di spostamenti. (Trib. Bologna 9-22/05/06).  Il recente orientamento della Cassazione (Cass. n. 16593/2008), appoggiato dalla dottrina, è invece nel senso di condividere che anche l’obiettiva lontananza di un genitore possa ostacolare l’affido condiviso. Quest’ultima soluzione appare maggiormente realistica, ove la distanza sia particolarmente apprezzabile. Il regime di affidamento condiviso,  presuppone invero una equilibrata divisione dei compiti, dei tempi e modalità di permanenza col minore,  per la sua cura e gestione nella vita di tutti  i giorni:  tutti questi doveri diventano materialmente irrealizzabili,  nella loro quotidianità,  qualora il genitore non collocatario abiti ad esempio in un continente diverso.

L’esclusione di un genitore dall’affidamento condiviso può verificarsi anche nel caso  della radicata e persistente avversione del minore riguardo a uno dei genitori,  quantunque questo risulti incolpevole (Trib. Firenze 22.04.06, in Fam. e dir. , 2006; Trib. Napoli decr. 17.05.06, cit. ; Trib. Reggio Calabria 28.03.08).  Tale atteggiamento di chiusura osta invero  a che il genitore possa con lui instaurare quel rapporto di reciproca conoscenza che è indispensabile ai fini di una educazione orientata alle sue capacità, aspirazioni e inclinazioni naturali. Non è parimenti pensabile che si possa fare violenza ai sentimenti del minore,  per costringerlo a tollerare rapporti familiari da lui non voluti,  ovviamente una volta posto in essere  ogni opportuno provvedimento che valga a superare tale rifiuto.  Questa impostazione sembra trovare conferma nel neo introdotto art. 155 sexies c.c., il quale codificando l’istituto dell’audizione del minore,   ha ribadito il principio di autodeterminazione dello stesso, consistente nell’obbligo di interpretare il “maggiore interesse” per il minore anche alla luce della sua effettiva volontà.